Non c’è dubbio che l’open space sia ideale per ottimizzare la superficie di un ufficio riducendo i costi; stimolare l’interazione era un altro vantaggio ora messo in discussione. I problemi però sono evidenti, non neghiamolo. La mancanza di privacy è il più sentito, ma non l’unico. Non usa mezzi termini The Washington Post che con l’articolo “Google got it wrong. The open-office trend is destroying the workplace” riapre il dibattito su questo argomento. “Workplaces need more walls, not fewer”: Gioiscano i produttori di pareti divisorie…
L’ironico racconto in prima persona di Lindsey Kaufman, newyorkese che lavora nella pubblicità e scrive saggi per The Washington Post, offre un’irresistibile fotografia del chiassoso comportamento in open space di un gruppo di colleghi che si presume non giovanissimo.
Tra qualche divertente luogo comune (cuffie per proteggersi dal rumore, imbarazzo per l’uso frequente delle toilette, controllo sul porno-watching clandestino e le telefonate personali, fughe nelle salette riunione per concedersi un po’ di solitudine) e qualche imprecisione (non credo si possa “incolpare” Google se il 70% degli uffici negli Stati Uniti è quasi completamente privo di divisori) l’autrice offre perle di saggezza e dati interessanti.
“Niente era privato”: questa la denuncia più pesante.
Contraddicendo la diffusa certezza che l’interazione aumenti la produttività, la ricerca del 2013 “Workspace satisfaction: The privacy-communication trade-off in open-plan offices” citata dalla Kaufman dimostra che molti lavoratori in open space si sentono frustrati dalle distrazioni che riducono le loro performance lavorative; circa il 50% ha lamentato la mancanza di privacy acustica e oltre 30% di privacy visiva. Anche sul “facilitare l’interazione” c’è qualche sorpresa: il tipo di layout è ininfluente se davvero si ha voglia di comunicare con i colleghi e solo meno del 10% sente questo problema in qualsiasi tipo di ufficio.
E’ preoccupante la conclusione: “la perdita di produttività a causa di distrazione del rumore … è raddoppiata negli uffici open space rispetto agli uffici individuali tradizionali.”
A quanto pare, nonostante i lavoratori gioiscano del cameratismo e del sentirsi parte di un’impresa innovativa, le prestazioni lavorative calano.
Altro aspetto da non sottovalutare, soprattutto nel periodo invernale, è il più facile contagio dei virus influenzali. Ne ha parlato nei giorni scorsi anche il Corriere della Sera suggerendo un galateo per non contagiare i colleghi.
Dunque Google ha sbagliato? Forse no. Probabilmente i benefici giustificano qualche innegabile svantaggio quando il modello “open” (open space, ma anche open mind) è parte della cultura aziendale delle imprese simili a Google per filosofia ed età anagrafica dei dipendenti. Sono state fatte ricerche sui nativi digitali?
L’errore è riprodurre acriticamente questo modello di layout anche in aziende più tradizionali, senza coinvolgere i dipendenti né condividere le scelte e soprattutto senza avere prima adottato cambiamenti nella cultura aziendale.
Editoriale di Renata Sias, direttore WOW! Webmagazine.