Guariti dalla consueta indigestione da design di aprile, qualche considerazione sulla Milano Design Week è quasi d’obbligo. Confesso: dopo 40 di frequentazione l’entusiasmo e la curiosità vanno scemando, ma le mie impressioni sono confermate dai validi collaboratori di WOW! e dai commenti di professionisti che godono tutta la mia stima; cito per tutti la tagliente “Perlina” postata da Enrico Baleri su Facebook che mi sembra insuperabile.
Innanzitutto complimenti al Salone del Mobile che batte un nuovo record di presenze (343.602 visitatori!) e che riesce a mantenere il suo ruolo insuperabile di catalizzatore internazionale del design.
Un successo al quale le aziende espositrici contribuiscono attivamente con la realizzazione di lussuosissimi stand, concepiti come architetture temporanee capaci di attrarre i visitatori e di coinvolgerli emotivamente. Originariamente questo compito spettava ai prodotti esposti, che trasudavano innovazione, offrivano un’immagine ben identificabile e traducevano con coerenza le Visioni dell’azienda.
Oggi, in molti casi, si affidano gli allestimenti a designer importanti e sembra che il progetto del contenitore prevalga su quello degli oggetti esposti, che pur nel loro altissimo livello qualitativo difficilmente vibrano di inedito.
Si investe sempre meno in ricerca tecnologica, questo è evidente.
Tra le eccezioni va citata Kartell che ancora – e sembra impossibile!- nel suo allestimento “Contamination” riesce a presentare nuove bellissimi prodotti, frutto di ricerca tecnologica e creatività; e sappiamo quanto sia difficile offrire quantità e qualità!
Il pericolo è in agguato quando, l’azienda a corto di idee, rispolvera il look anni ’50 oppure, pur di lanciare qualcosa di “innovativo” entra in territori che negano il buon senso e l’ergonomia, rasentando il ridicolo.
E mi dispiace citare in questo filone Alias, azienda che gode la mia stima. Va bene il design ibrido, ma come si può concepire una sedia -scomoda- integrata all’interno di una libreria?
L’obbligo di presentare la novità dell’anno a tutti i costi può portare anche a questo; l’ansiogena scadenza del Salone miete vittime…
Forse bisognerebbe anche riflettere sul format stesso della “Fiera”: una così rigida compartimentazione tra settori diversi dell’arredo ha ancora senso? Non è anacronistica rispetto al modo fluido in cui gli ambienti di vita, lavoro, divertimento si fondono?
Ci sorprende per esempio vedere al Salone del Mobile anziché a Workplace 3.0 l’intero stand di Lapalma dedicato alla collezione “Light Office”.
E, considerando che break e lounge area sono diventate workstation a tutti gli effetti, le sedute per contract dove si collocano?
Se l’ufficio è sempre più fluido e votato al wellbeing (come sottolineato anche nell’installazione A Joyful Sense at Work) trasformare il format un po’ datato datato del Salone Ufficio in un più dinamico Salone Contract & Workplace forse potrebbe ampliarne l’attrattività.
E poi c’è la gioiosa occupazione del Fuorisalone… son et lumière in tutta la città, scenografie sempre più affascinanti, installazioni al confine tra arte e design, capaci di impreziosire luoghi dismessi, ma anche di offendere palazzi storici con brutti allestimenti degni di un luna park ( per esempio l’installazione all’Accademia di Brera).
E come un parco divertimenti attraggono folle che vogliono partecipare alla gran kermesse del design senza farsi troppe domande.
Ho chiesto a una decina di persone che prendevano il sole comodamente sdraiate sui divani che arredavano il Giardino Botanico di Brera. “Scusi sa il nome dell’azienda che produce questi divani?” Risposta: occhi sbarrati e un disinteressato “Boh!”.
Mi dispiace pensare che un’azienda (che azienda era?) abbia investito il suo denaro in questa iniziativa illudendosi di avere visibilità:
Sto pensando di scrivere una “Guida per prevenire la bulimia da design”. Potrebbe essere utile.
Editoriale di Renata Sias, direttore WOW! Webmagazine