Recentemente ho partecipato a due incontri che mi hanno spinto a riflettere sul tema worklife integration. Nel talk-show intitolato “Lavorare per vivere o vivere per lavorare?” organizzato da Herman Miller a Milano, quattro appassionati stakanovisti (uno chef emergente, un blogger a tempo pieno, un ex-avvocato convertito antiquario, l’assistente di un famoso stilista) moderati dal bravo coach Roberto d’Incau, hanno raccontato di carriere appaganti alle quali sono state dedicate tutte le proprie energie, gioie e dolori -ma soprattutto gioie- dell’assoluta e totalizzante dedizione al lavoro che mette in secondo piano vita, affetti e famiglia (sarebbe stata interessante anche l’opinione di qualche consorte…). Insomma un evidente esempio di Work-life No-balance per scelta!
Il secondo incontro “Smart Working: ripensare il lavoro liberare energia” presentava i risultati della ricerca svolta dalla School of Management del Politecnico di Milano.
(Ampio spazio sarà dedicato a questa ricerca nel #2 di WOW! webmagazine).
Il dato abbastanza sconfortante è che, nonostante le tecnologie digitali siano sempre più diffuse e consentano di poter svolger e le proprie attività a distanza e nonostante la motivazione e l’equilibrio tra lavoro e vita personale siano considerati un beneficio dello smart working dall’84% dei lavoratori intervistati, solo il 5% dei lavoratori ha uno stile di lavoro da “Smart”, caratterizzato da maggiore flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi di lavoro (Distant o Mobile Worker), degli orari di lavoro (Flexible Worker) e degli strumenti da utilizzare (Adaptive Worker).
C’è di più: il profilo socio-demografico di questo privilegiato 5% è composto principalmente da uomini top manager del nord Italia in età compresa tra 38 e 44 anni. Paradossalmente le medie più basse riguardano giovani e donne che avrebbero invece maggiore predisposizione e maggiori benefici verso un modello di smart working e smart life realmente integrati.
Quali sono le cause di questa “arretratezza”? Gli alibi del management sono la “cultura” delle persone che va cambiata, il rispetto di normative e leggi obsolete, il rifiuto di chi ha potere decisionale al vertice.
Dunque l’integrazione tra vita personale e vita lavorativa è vissuta ancora come una sorta di status symbol anziché la risposta a reali esigenze?
Questo scenario fotografa solo la realtà italiana o anche all’estero la situazione è analoga?
La Worklife integration è solo un mito?
Qualcuno ha case history da raccontare a dimostrazione che la worklife integration non è un’utopia?
Editoriale interattivo di Renata Sias