L’etica del lavoro e la declinazione del confort.

Ho trentatre anni e sono il direttore di Zero, un giornale che dal 1996 manda le persone a divertirsi e racconta le città attraverso eventi, comunità e fenomeni. Incontro persone che producono cultura, musica e intrattenimento nei loro uffici, quando non sono loro a venire nel mio: un loft upside-down, ovvero un grande scantinato dove isole di tavoli atomizzano divisioni aziendali, ambiti e ambienti. Il più anziano è il mio capo. L’editore ha quarant’anni e tutti i miei colleghi lavorano duro in un momento in cui la congiuntura e la contemporaneità hanno reso il lavoro gassoso, continuo, sovrapposto e ubiquo. Mi riferisco a casi rari poichè la mia generazione, anche quando preparata e formata fa davvero fatica ad esercitare un lavoro, a guadagnare un presupposto per la crescita personale, umana e sociale. In questi termini credo che la questione professionale sia una questione etica. 
Inoltre credo che la necessità oltre che il desiderio che la mia generazione ha di lavorare ha fatto si che il confort spaziale e psicologico fossero un tandem così declinabile che ci si è abituati a qualsiasi condizione pur di non rimanere senza.

Non prendetela come una premessa, questo perimetro è la contemporaneità di chi l’ambiente di lavoro lo usa, lo personalizza, lo adatta e lo spalma, perchè anche nel peggiore dei casi significa che un lavoro ci sia, anzi probabilmente ce ne siano più di uno e ognuno con una caratteristica diversa, con spazi diversi dove operare. C’è poi un’area ulteriore e grigia perchè confusa e variabile (non grigia perchè depressa e improduttiva) dove continuare a lavorare. 
Mi riferisco ai mezzi di trasporto, alle attese urbane, ai luoghi del cibo, alla casa, all’automobile. Come vedete mi principalmente riferisco a spazi, non credo alla dittatura del device. Posso fare molto con pc e tablet ma non tutto quello che occorre. Il luogo di lavoro è uno spazio diffuso e l’ufficio che rimane come base, come snodo oppure come nodo di una rete è diventato uno spazio che attraversiamo. 
Non è più una sacca, una tasca, una bolla, ma una galleria, un ”mac-drive” dove ricaricare device, verificare passaggi, fare il punto, consumare un pezzo dell’esperienza, coniugare in gruppo un’azione.

In questo ambiente ci sono delle cose, uso un termine apparentemente banale ma prendiamolo per la sua forza disarmante. Le cose, mobili e immobili, che ci circondano, in una dimensione sconfinata in cui i limiti sono evaporati (per esempio mangiamo in ufficio, lavoriamo a casa), attivano tra le persone un’interazione positiva con il contesto. Le cose che intendo sono quelle alle quali ci affezioniamo. Infatti un artefatto attira la nostra energia psichica se esso dà una buona esperienza. Uno studioso, docente al IDC di Chicago, il professor Csikzentmihaly la chiama esperienza ottimale, ovvero uno mix di cognizione, emotività e motivazione. L’integrazione di questi elementi rivestono certe cose di una capacità di autodeterminazione e di competenza quando esse entrano in relazione con l’utente perchè il soggetto le sperimenta. 
Le cose, gli oggetti, i servizi capaci di attirare questa spinta negli individui entrano e si mantengono nella cultura e nella società. Il design ha fatto suo questo input e essere smart and happy sono diventati driver della progettazione.

Di Marco Sammicheli

(sintesi dell’intervento introduttivo del seminario Assufficio Smart & Happy Office. Milano 7 febbraio 2013)