Che cosa sta facendo la tua azienda per il clima? È questa la domanda provocatoria, quanto oggi cruciale, lanciata da Interface nel presentare il successo di Mission Zero, il progetto di azienda a zero impatto ambientale iniziato nel 1994 e concluso con un anno di anticipo. Basandosi sulla metodologia SHINE Handrprint elaborata dall’Harvard School for Public Health, e sull’ottimizzazione della catena di approvvigionamento e riduzione delle emissioni, Interface oggi può produrre con il 60% di materiale riciclato o a base biologica, utilizzando per il 99% energia rinnovabile.Nel report “Lessons for the Future”, però, è già presente il prossimo “moon shot”: Climate Take Back, una reazione a catena guidata da una carbon negative company.
“Abbiamo cambiato il nostro business per cambiare il mondo, e abbiamo raggiunto obiettivi che non pensavamo fossero possibili. Mission Zero ci ha insegnato importanti lezioni sul futuro. Ci ha insegnato di business models, sbarchi sulla luna, aspirazioni e risoluzioni di problemi materiali attraverso l’immaginazione e la scienza. Ci ha configurato per la nostra prossima missione impossibile: Climate Take Back”.
Con queste parole Erin Meezan, direttrice del sustainability office di Interface, ha commentato soddisfatta i risultati di un progetto nato nel 1994 dalla visione del fondatore dell’azienda Ray Anderson e conclusosi con un anno d’anticipo rispetto alle previsioni.
Mission Zero, come racconta il report “Lessons for the future”, è stato per Interface l’esperimento pioniere in grado di dimostrare come arrivare a realizzare una gamma di prodotti realmente a emissioni zero.
La ricetta è stata ristrutturare totalmente il ciclo di vita del prodotto, dal suo concepimento, alla scelta e all’approvvigionamento dei materiali, fino a compensare l’ancora inevitabile disavanzo nelle emissioni con l’acquisto di “carbon offsets”, ovvero finanziamento di progetti atti a ridurre l’impatto dei gas serra.
Ciò che però a caratterizzato questo “Journey to zero”, è stato anche il tentativo di andare oltre i propri confini aziendali e di essere la miccia per una più ampia reazione a catena: collaborando con i fornitori di nylon per creare un filato con componenti riciclati e con la città statunitense di LaGrange su un progetto di riutilizzo dei gas di discarica, l’azienda ha calcolato un’impronta manuale di 1 milione di tonnellate di equivalente di anidride carbonica.
Ideata dall’Harvard School for Public Health, la definizione di “handprint” ribalta quella precedente di “impronta ecologica”: dal pensare al consumo di risorse naturali rispetto alle capacità rigenerative del pianeta, la definizione di handprint si concentra sul possibile impatto positivo della nostra presenza.
Un’idea promossa con forza nelle parole del CEO Jay Gould che lancia ora il progetto Climate Take Back: ovvero andare oltre all’impatto zero per creare un’azienda a impatto negativo sull’emissione di carbone entro il 2040:
“Non vediamo l’ora di creare ancora maggiore impatto positivo attraverso il nostro portfolio. Siamo elettrizzati nel mostrare che è possibile creare un prodotto che è veramente benefico per l’ambiente. Se noi possiamo farlo, tutti possono. E se tutti possono, tutti dovrebbero”.
Testo di Gabriele Masi.