“La felicità al lavoro non è qualcosa che si dovrebbe avere, ma qualcosa che si deve ricercare, e dipende da due fattori: risultati e relazioni”. In un video pubblicato sulla sua pagina di LinkedIn, Alexander Kjerulf, fondatore di Wohoo Inc., analizza quali sono le obiezioni che spesso ascolta durante i diversi incontri e i workshop che gestisce sul tema in qualità di Happiness expert: quali sono e perché ancora oggi ci sono resistenze circa la creazione di un luogo di lavoro che metta al primo posto la felicità di chi ci lavora?
Esiste una parola nelle lingue scandinave che non esiste nelle altre ed è Arbejdsglæde, letteralmente “felicità al lavoro”. Alexander Kjerulf ha fatto di questa parola in tutto il mondo la sua missione, organizzando conferenze in diversi paesi e sviluppando progetti insieme a grandi compagnie come Lego, Ikea, Shell, IBM o Microsoft.
Spesso, come spiega nel video pubblicato su LinkedIn, però, incontra delle resistenze sul tema della felicità in ufficio. Quali sono dunque i pregiudizi da abbattere?
I più interessanti sono sicuramente quelli che contestano una mancanza di definizione comune del concetto di felicità, e perciò l’impossibilità di misurarla e di poter soddisfare pienamente il lavoratore perché portatore di esigenze troppo soggettive, che spesso neanche gli individui stessi sanno interpretare.
Parafrasando la definizione di felicità data da Sonja Lyubomirsky, Alexander Kjerulf suggerisce questa definizione del termine felicità: “una esperienza di gioia, contentezza e positivo benessere sul luogo di lavoro, in combinazione con un senso che la propria vita lavorativa sia buona, significativa e utile”.
Non bisogna confondere la felicità, cioè come tu percepisci il lavoro, con la soddisfazione, cioè coi risultati di carriera, quali stipendio, alta posizione all’interno dell’organico, etc…
Due sono i parametri da considerare: i risultati, cioè il sentirsi il migliore in quello che si fa, e le relazioni, cioè trovarsi bene con le persone con cui si lavora.
Certo è impossibile creare delle condizioni standard che possono andare bene per tutti, ed è per questo che è importante tenere a mente il fatto che “l’unico modo per far felici tutti è quello di trattarli in maniera diversa”.
Non bisogna dimenticarsi, anche, che c’è anche un modo di educare le persone a essere felici e ad aiutarle a capire cosa può renderle tali nei luoghi di lavoro, e questo, come abbiamo già analizzato, può essere uno dei compiti del design nei nuovi spazi ufficio.
Un’altra obiezione interessante consiste nel considerare la felicità come una questione privata: molte persone infatti vogliono poter aver il diritto di sentirsi tristi al lavoro e di non far parte di feste, giochi o altre “stupidaggini” organizzate dall’azienda per creare un clima felice.
In un contesto produttivo e di lavoro in team, però, le emozioni e le sensazioni hanno un impatto sociale e sulla produttività dell’azienda. Mai come in altri casi, qui una delle frasi dello scorso secolo risulta calzante: in ufficio “il personale è sociale”, e anzi crea lo spazio sociale intorno, modificandone anche i risultati.
Lungi dall’essere elementi estranei dal luogo di lavoro, le emozioni hanno una reale incidenza e al contrario di quello che alcuni sostengono, l’essere felice non ci rende pigri o egoisti, ma ci più propositivi, volenterosi e disposti al lavoro in team.
L’obiezione principale però è quella di chi dice “se ti aspetti di essere felice al lavoro, sarai deluso”.
“È proprio il contrario”, conclude Kjerulf. “Se tu ti aspetti che essere felice debba essere uno dei parametri per la scelta del tuo lavoro, allora farai di tutto per esserlo. Credo che essere felici sul posto di lavoro o creare un posto di lavoro felice debba essere il primo obiettivo della propria carriera o della propria leadership”.
Testo di Gabriele Masi.