
Il 3 ottobre Isao Hosoe ci ha lasciati. Da Tokyo, dopo la laurea in ingegneria con una tesi su un aereo a propulsione umana, negli anni ’60 si era trasferito a Milano, patria del Design, dove aveva scelto di vivere, lavorare e formare la sua famiglia; dove aveva collaborato con Gio Ponti e Alberto Rosselli prima di fondare il suo studio.
Il mondo del design milanese gli ha reso omaggio con una toccante cerimonia funebre che si è tenuta nel salone d’onore della Triennale. Io voglio rendergli onore con una selezione tra i suoi pezzi che preferisco e con un testo che racconta il nostro primo incontro, scritto due anni fa, che doveva contribuire alla stesura di una sua monografia.
Un grande Maestro dell’Industrial design che -innovativo come sempre- aveva qualche anno fa aperto il suo interesse al Design d’Impresa, con il progetto Play Factory per Loccioni ed era riuscito ancora una volta a stupirci.
Isao, il Trickster del design. Isao, il mio Maestro.
All’inizio degli anni’80, neolaureata e giovane redattrice della rivista Ufficiostile, curavo una rubrica di interviste con i più noti designer. Fu così che conobbi Isao nel suo primo studio in via Burigozzo. L’intervista durò molto più del consueto. Mi resi subito conto che avevo di fronte un personaggio fuori dagli schemi e le domande canoniche adottate per la rubrica non potevano essere adatte a rappresentarlo. Più filosofo che ingegnere, il grande affabulatore mi incantò; mi lasciai condurre dal flusso lento, costante delle sue parole, dalla sua imprevedibile cultura, dalla sua acuta ironia, dalla esotica cadenza giapponese, dalla gestualità rituale e soprattutto dalla visione di inarrestabile ricerca dell’imprevedibile e dell’inedito che traspariva da ogni sua parola, prima ancora che dai suoi progetti. Avevo conosciuto un Trickster, avevo conosciuto il mio Maestro.
In verità la definizione Trickster (nell’accezione di catalizzatore dinamico all’interno del binomio centro-periferia) fu scelta da Isao stesso alcuni anni più tardi, in occasione della mostra e del libro “Incontri di Lavoro. Domesticità in Ufficio.” di Domus Academy ai quali ho avuto il piacere di collaborare.
Perché quel primo incontro con Isao non si esaurì con la pubblicazione dell’intervista, ma si sviluppò in una grande amicizia e in un rapporto professionale che ha profondamente segnato la mia vita, il mio approccio al progetto, la mia visione di industrial design e in particolare la mia concezione di workplace.
Entrai a far parte del team di Isao Hosoe Design, nella sede di via Voghera, conobbi il suo fantastico staff, partecipai a diversi progetti, condividendo momenti di entusiasmante coinvolgimento. Con Ann Marinelli scrivemmo un altro libro “PlayOffice” per Itoki che ci portò in Giappone per un giro di conferenze.
Eravamo consapevoli di essere portatori di una nuova cultura dell’ufficio, di una nuova accezione di ambiente di lavoro – oggi si direbbe “trasversale”- cui Isao ha dato un profondo e radicale contributo fin dai tempi della sua formazione (con Alberto Rosselli disegnò il primo sistema di arredi per ufficio a cluster).
Sapeva tradurre in oggetti e arredi inediti le sue intuizioni dopo averle arricchite con ricerche di antropologia e di economia.
Sapeva raccogliere idee e concetti e portarli in un prodotto, utilizzando quello stesso metodo di “abduzione” che era stato alla base dei suoi primi progetti, come la lampada Hebi concepita raccogliendo e assemblando un pezzo di tubo flessibile e altre parti di lampade trovati per terra in fabbrica. Credo che sia uno dei lavori che meglio lo rappresentano; in nuce, già all’inizio degli anni’70, compaiono temi che torneranno in molti altri suoi progetti: il ready-made la flessibilità, l’ergonomia, il gioco.
Qualche anno dopo portò l’idea di “ludico” anche nell’ambiente di lavoro: le ruote e piani movibili come giocattoli perché intuì che nessuno sarebbe più stato relegato nella fissità di una scrivania e che le persone avevano bisogno e diritto di stare bene e divertirsi, non solo nel tempo libero.
Caratterizzò i suoi arredi con segni morbidi e sensuali che l’ufficio “dell’era industriale” aveva sempre bandito. Insieme all’erotismo, esplicitò e tradusse concretamente nei suoi progetti altre parole chiave che non erano mai state prese in considerazione nell’ambito del lavoro: amenità, gioco, teatralità, incontro, status, territorialità.
Nel 1984 esultò quando lesse su The Harvard Business Review il lungimirante articolo “Your office is where you are” di Stone e Lucchetti e fu certo che quello sarebbe stato il futuro dell’ufficio.
A 30 anni di distanza siamo certi che l’incontro è il vero significato dell’ufficio, che l’esigenza di territorialità va rispettata; ci siamo abituati a uffici con accoglienti lounge area, pareti verdi e biliardini. Le parole condivisione e wellness sono venute di moda un paio di decenni dopo, ma posso dichiarare con certezza che i concetti che oggi ci sembrano innovativi erano già stati esplorati da Isao, il Trickster. Da Isao, il mio Maestro.
Testo di Renata Sias (Milano 18 ottobre 2015)