
Intervista esclusiva a Matali Crasset.
Matali Crasset ha iniziato a lavorare come designer negli anni ‘90, nello studio di Denis Santachiara in Italia e di Philippe Starck in Francia e all’inizio del 2000 ha fondato il suo studio, in un a ex tipografia a Parigi. ‘Sovversiva’ da sempre, Matali concepisce il design come una ricerca e lavora partendo da una posizione distaccata che le consente sia di intervenire concretamente sulla vita quotidiana sia di progettare scenari sperimentali e oggetti che anticipano il futuro.
Matali Crasset Studio applica un identico modello progettuale in ogni parte del mondo e con ogni tipo di azienda o prodotto di design oppure modifica il proprio approccio in base alle diverse realtà?
Penso alla specificità delle risposte e considero un contesto in sé e non la mia capacità di duplicare una risposta per un ‘mercato’ o un cliente tipo. Di recente sono stata in Senegal dove collaboro con una ONG alla realizzazione di un albergo in un luogo eccezionale, una riserva marittima naturale ambita da operatori alberghieri molto importanti e il progetto Hotai è stato scelto proprio per la sua qualità, la sua particolarità e la sua unicità. Al tempo di internet e google, essere piccoli, diversi, torna a essere un punto di forza dato che ogni cliente può vedere in pochi secondi ciò che gli verrà proposto…
Matali Crasset lavora in campi molto diversi tra loro (design e architettura, uffici, residenze, retail, ristoranti, hotel, scuole, illuminazione e arredi) dalle analisi per questi progetti emergono nuovi stili di vita e nuove esigenze da parte degli utenti?
Mi sono sempre permessa la libertà di lavorare per vari committenti, clienti privati e pubblici, la città, l’artigiano, un’azienda consolidata o in divenire. Ho sempre lavorato secondo una nozione di funzione allargata. Penso che una sola funzione per un oggetto non sia sufficiente e anche la multifunzionalità non è più la soluzione. Invece di produrre oggetti che ‘hanno senso’, preferisco reinventare la funzione. Non cerco a tutti i costi di simbolizzare una funzione attraverso una forma e rispettare i codici di ogni settore (per esempio una radio, evocando un suono, non sarà mai progettata come un tostapane che evoca invece il calore). Quando mi sono diplomata ho disegnato tre oggetti che ho chiamato diffusori per mettere l’accento su quello che danno e non su quello che sono; una ‘trilogia domestica’ che completava la funzione dell’oggetto dandogli tre dimensioni: funzionale, poetica e immaginaria. Questo progetto mi ha reso consapevole che il saper fare del designer sta in gran parte in questo; si tratta di fornire gli ingredienti che compongono un oggetto secondo un’intenzione. La complessità del processo creativo rende il lavoro appassionante. Richiede grande rigore intellettuale. Affrontando ‘oggetti che arredano’, la funzione allargata si concretizza in uno scenario di vita…
Ci sono “contaminazioni” concettuali ed elementi in comune tra i diversi settori di progetto nei quali opera Matali Crasset Studio?
Mi vengono chieste sempre più spesso quali sono le mie considerazioni strategiche e le prospettive. Di solito considero i miei progetti da un punto di vista maieutico, non si tratta solo di dare una forma alla materia – l’estetica – ma piuttosto di fare emergere e di organizzare intorno a valori e intenzioni condivise, legami e reti di competenza, connivenza e socialità. La maggior parte dei progetti ai quali sto attualmente lavorando mettono in evidenza questa dimensione collaborativa e di lavoro di squadra. Per esempio, il progetto recente della Maison des Petits au 104 a Parigi, le case boschive per il Vent des forêts a Fresnes, Mont dans la Meuse, la scuola Le blé en herbe a Trebedan in Bretagna con la Fondation de France, Dar’hi a Nefta in Tunisia. Sono sempre più interessata a una dimensione locale. Ormai è chiaro che la contemporaneità non è più di appannaggio escluivo del mondo urbano. Naturalmente, disegno anche oggetti, ma non sono il centro né la finalità del processo creativo, solo una delle possibili attualizzazioni (un’architettura, una scenografia, un’esposizione …) in un determinato momento, di un sistema di pensiero più ampio.
Quali cambiamenti si sono verificati nella visione di ufficio negli ultimi anni (dalla Red Cell del 2001 all’Open Room per Established & Son o Domodinamica chair, da Organic Space per la Biennale Beijing 2004 e lo spazio BHV al Cooper Hewitt Museum, dalla scrivania per bambini Balouga alla Elmes Open Platform a alla libreria Concrete LCDA…) e come questi cambiamenti si rispecchiano nei nuovi prodotti?
Al di là dello spazio di lavoro, trovo che la domanda più interssante riguarda lo scenario all’interno di tale spazio e la relazione con la nostra sfera sconvolta dalle nuove tecnologie.