
Si è svolta presso il Dip Ingegneria Gestionale POLIMI la riunione fluida e nomadica di redazione sul tema Smart Working.
WOW! webmagazine prevede una redazione nomadica, (ogni mese in un luogo diverso) fluida e jelly (composta da un piccolo gruppo selezionato e variabile di professionisti).
Vuoi partecipare alla prossima WOW! Jelly Session (13 febbraio 2013)? Scrivi a WOW!
Alla WOW! Jelly Session #2 sul tema Smart Working erano presenti:
Daniele Andriolo (FM Siemens); Cristiana Cutrona (arch, Revalue); Mariano Corso (prof Politecnico Ingegneria Gestionale); Fiorella Crespi (ricercatore Politecnico Ingegneria Gestionale); Emanuele Marini (ricercatore Politecnico Ingegneria Gestionale); Silvio Petronella (arch, Dante O. Benini & Partners Architects); Giorgio Grandi (arch, docente IED); Luigi Uboldi (Head Global Realty Services State Street Bank); Paolo Cerino via SKYPE da Roma (direttore CSR Sace); Renata Sias (direttore WOW!); Maximilian Speciani (Web designer WOW!)
L’incontro è aperto da Mariano Corso che sintetizza i risultati della ricerca Smart Working svolta dall’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano che ha studiato non solo l’impatto di tecnologie abilitanti ICT sui modelli di gestione delle persone e di riorganizzazione dello spazio fisico, ma anche i vantaggi in termini economici e di soddisfazione dei dipendenti che derivano dall’applicazione dei nuovi modelli gestionali Smart in netta antitesi con i modelli Tayloristici ancora imperanti.
Il concetto di Spazio non è solo fisico: virtual workspace non vuol dire solo spazio ‘digitale’, ma che deve essere compatibile con uno stile di lavoro diverso. Virtual workspace è internet, cellulare, treno, auto casa, ma anche spazio di relazione nel luogo di lavoro e tutti questi “spazi” devono essere configurabili e in linea con gli obiettivi e con le esigenze delle persone che sono in modificazione. Lo spazio fisico conta enormemente perchè ha un forte potere evocativo sui comportamenti e anche perché ‘costa’ e va razionalizzato. Ma ridisegnare gli ambienti significa anche ridisegnare le regole. I recenti studi indicano che la leadership del cambiamento è soprattutto nelle mani di Facility e Space Manager perché hanno disponibilità di budget.
I Manager presenti offrono il proprio punto di vista e le proprie esperienze. Confermano che c’è una grande attenzione al costo degli spazi e che i progetti di remote working, in fase di graduale applicazione, coinvolgono attualmente dal 5 al 10% dei dipendenti; prevedono desk sharing in ufficio per garantire il ‘tessuto connettivo’, la rintracciabilità in orario lavorativo e anche qualche giornata di presenza in ufficio perché è importante sentirsi parte di una ‘popolazione’, identificarsi nell’azienda, ma anche per problemi sindacali.
Lo spazio fisico è importante ma il tema dello ‘spazio-tempo’ è altrettanto rilevante. Quando un collega ha obiettato che lo smart working consente alle persone di essere sempre in vacanza, uno dei manager presenti ha risposto che in verità dà anche la possibilità di essere sempre al lavoro! Tende a scomparire la partizione tra vita personale e vita lavorativa.
Gli aspetti sindacali e contrattuali spesso presentano vincoli all’applicazione di modelli Smart Working, per questo in alcuni casi l’adesione dei dipendenti è facoltativa. L’azienda deve preoccuparsi non solo di sostenere economicamente i costi delle connessioni internet e la sicurezza ma anche verificare che il workspace domestico abbia gli stessi requisiti e l’ergonomia di quello in ufficio. Solitamente si chiede al dipendente il divieto di lavoro notturno e un’autocertificazione di idoneità dell’home office.
Nonostante queste affermazioni che riguardano la normalità, in alcuni casi eccellenti in Italia la spinta allo Smart Working è nata proprio dai sindacati; si deve partire dai contratti di lavoro, ma se si parte nel modo giusto è improbabile trovare poi delle opposizioni. Anche il problema “culturale” ha un peso notevole: pur senza obbligo di timbro del cartellino, alcuni dipendenti vogliono comunque rimanere in sede anche oltre l’orario di lavoro.
Non si deve però cadere nel pregiudizio che lo Smart Working interessi solo la popolazione giovane e neo-assunta; in alcuni casi la risposta più immediata ed entusiasta si è avuta da dirigenti over 45, presenti in azienda da molti anni e quindi con molti benefici già acquisiti.
La tecnologia del lavoro da sempre condiziona i comportamenti e oggi è evidente che il lavoro intellettuale produce valore in modo non lineare e nemmeno confinabile nel tempo e nello spazio. Il problema è che i Direttori del Personale si sono formati con la mentalità tayloristica di “acquistare il tempo delle persone”, un concetto che oggi non ha più senso.
Ma talvolta sono le organizzazioni con procedure ‘scandalose’ di firme e controfirme e una filiera obsoleta di correzioni manuali su documenti cartacei che contrastano la delocalizzazione delle persone. Il Direttore del Personale può anche trovare ‘capi’ che vedono nel dominio del tempo e dello spazio dei collaboratori un elemento di supporto dell’attività gerarchica.
Un altro impedimento alla diffusione dello Smart Working è l’incapacità del management di programmare e pianificare per obiettivi che richiede la disponibilità e presenza costante del subordinato.
Cambiare mentalità è difficile; per esempio convincere le persone che gli armadi in ufficio possono diminuire perché non è necessario avere in dieci persone gli stessi 15 documenti pinzati insieme ma è sufficiente un’unica copia dei 3 documenti davvero necessari…
Eppure quando, anche con il coinvolgimento dei dipendenti, si riescono a riorganizzare gli ambienti, quando si riesce a dare spazio alle persone invece che alla carta, tutti apprezzano gli uffici ampi, spaziosi, più belli e le resistenze iniziali sono facilmente superate, soprattutto se non solo “togli” spazio personale ma offri accoglienti ristoranti o palestre o spazi di supporto
Tra i manager presenti emerge la sensazione che la pretesa di progettare gli spazi delle persone sia superata. Gli ambienti devono essere riconfigurabili in base alla libertà dell’individuo.
Le opinioni dei progettisti sono concordi: solo la flessibilità di organizzazione del lavoro può diventare flessibilità di uso dello spazio.
Talvolta però è difficile spiegare al cliente che ottimizzare lo spazio non significa solo trasformare l’ufficio in un ‘pollaio’ ma che tipologie differenziate di spazi e aree di supporto sono indispensabili. Si applica una flessibilità di uso per gli ambienti del team perché l’architettura ha il potere di aggregare; allo stesso tempo si offre la possibilità di recuperare in aree più raccolte la dimensione del territorio ‘proprio’.
Si devono stabilire nuovi equilibri perché in fondo c’è la paura di perdere il proprio ruolo, e la qualità dello spazio è un ottimo veicolo per convincere anche i più restii.
La sede Microsoft, racconta Cristiana Cutrona di Revalue è stata concepita con tipologie differenziate di spazi e sedute per poter cambiare territorio nei diversi momenti della giornata, in gruppo o individualmente; tra tante aree per la condivisione, esiste anche la postazione singola rivolta verso l’esterno dedicata alla meditazione.
Di contro ci sono aziende che ancora chiedono aree break inospitali per non incentivare pause troppo lunghe oppure perché il contratto obbliga alla pausa pranzo con relativo timbro di cartellino e quindi non possono permettere che l’ora di pausa venga consumata all’interno dell’ufficio.
Il ristorante aziendale è sempre più spesso concepito come ambiente di lavoro informale. Al Vodafone Village si era inizialmente previsto che dovesse funzionare solo al mattino e a pranzo, ma in seguito è stata integrata agli uffici ed è funzionante e usata come luogo ideale di incontri informali per tutto l’arco della giornata, prosegue Silvio Petronella di Dante O. Benini & Partners Architects.
La riorganizzazione dello spazio fisico è stata il punto di partenza per la sede Sace di Roma, il prestigioso palazzo del ‘600 su cui appoggia Fontana di Trevi – un building a cui siamo ‘affettivamente’ legati, dice Paolo Cerino. Oggi però ai soffitti affrescati “siamo riusciti ad affiancare, con ottimi risultati estetici e funzionali, pareti vetrate che delimitano open spaces, caffetterie in ogni piano, parcheggi per biciclette e una palestra”. L’idea di Smart office è legata ad ambienti sempre più aperti, e “ci sembra che le nostre persone abbiano accettato ed apprezzato questo cambio ‘epocale’ nell’utilizzo degli spazi.”
Questo vale anche per altri ambienti collettivi che non sono l’ufficio, conclude Giorgio Grandi che, riporta il caso dell’istituto IED che con un progetto sviluppato insieme agli studenti ha cambiato radicalmente la relazione tra aule e corridoi. I percorsi non sono più non-luoghi, ma spazi di sosta e di lavoro con isole differenti.
Se lo Smart Working può liberare energie, sarebbe bello che gli spazi riuscissero a raccogliere e convogliare tutta questa energia.
A cura di Renata Sias
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