
Si è svolta presso lo showroom BTicino a Milano, la riunione mensile, fluida e nomadica sul tema illuminazione.
WOW! webmagazine prevede una redazione nomadica, (ogni mese in un luogo diverso) fluida e jelly (composta da un piccolo gruppo selezionato e variabile di professionisti).
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Lo spunto per la discussione è offerto dal ‘j’accuse di Jean Nouvel’ contro l’omologazione che sta alla base del progetto degli ambienti di lavoro e collettivi; durante la conferenza stampa de i Saloni il Pritzker ha definito assurdo che i palazzi per uffici prevedano sistemi di illuminazione monotoni, integrati nei controsoffitti. In effetti gli ambienti collettivi oggi si concepiscono in modo più articolato, con aree differenziate per attività diverse. In questo scenario come cambia il progetto illuminotecnico?
Erano presenti alla jelly session: Jacopo Acciaro (Voltaire), architetto; Jessica Astolfi (PoliMI), architetto; Daniela Carta (MQA), architetto; Luca Colombo (Zumtobel); Massimo Facchinetti (Facchinetti & Partners) architetto; Marco Fiorentino (BTicino); Gianni Forcolini, architetto; Silvia Gervasoni (assistente PoliMI), architetto; Luigi Guadagno (Studio Marco Piva) architetto; Lenka Lodo (Goring & Straja Studio), Tatiana Milone, architetto; Gianpaolo Monti (BTicino), ingegnere; Marzia Morena (PoliMI, Rics), architetto; Lorenzo Palmeri, architetto; Manuela Scisci (BTicino), Comunicazione Corporate; Andrè Straja (Goring & Straja Studio), architetto; Renata Sias, direttore WOW! webmagazine; Maximilian Speciani, web designer WOW! webmagazine.
Alto l’interesse dei progettisti coinvolti, variegati i punti di vista e molto stimolanti le osservazioni emerse, spesso in netto disaccordo anche tra i presenti, che sono andate ben oltre il tema specifico dell’illuminazione e hanno introdotto ulteriori temi di discussione. Tutti concordano con ‘l’accusa’ di Jean Nouvel e sul fatto che l’ottica del risparmio a tutti i costi sia il ‘movente’ principale, ma ci sono anche altre cause e il tentativo è quello di identificare il principale ‘colpevole’ della noiosa omologazione che domina gli ambienti di lavoro. C’è chi sostiene che in un contesto basato sulla massima densità e flessibilità, la standardizzazione sia una strada obbligata: spesso si tratta di building multitenant che costringono alla flessibilità più estrema; la legge impone la consegna ‘al grezzo’ che include anche l’illuminazione base; il cliente che prenderà in affitto questi spazi vorrà spendere meno possibile. Tutto è contrario alla visione di personalizzazione e di qualità.
Quasi sempre l’investitore considera l’immobile un ‘prodotto finanziario’ che deve garantire redditività e il ritorno dell’investimento nel minor tempo possibile. La filiera del Real Estate guarda ai risultati economici mentre il progettista vorrebbe guardare al bello, ma sono due mondi che non parlano tra loro. Solo raramente capita il cliente colto un ‘Lorenzo il Magnifico’, come lo definisce Marzia Morena, che vede oltre il buiding-prodotto finanziario oppure un tenant che vuole un immobile da qualificare e personalizzare, un headquarters che lo rappresenti.
Sul ruolo dell’architetto si accendono gli animi … il modello di qualità al quale tendono i progettisti spesso è fatto di ‘immagine’ di status, di marmi e materiali lussuosi, molto meno si punta alla qualità sottile – ma percettivamente molto importante- dell’illuminazione o dell’acustica. Insomma si dà priorità a ciò che si misura in chili piuttosto che a quel che si misura in frequenze… soprattutto in Italia e nei Paesi mediterranei, mentre in nord Europa e Paesi anglosassoni la cultura della qualità ambientale, non solo illuminotecnica, è più diffusa.
Forse parte della responsabilità è dell’architetto, spesso impreparato, che affida il progetto illuminotecnico alle aziende produttrici di lampade che hanno soluzioni funzionali ma piuttosto banali. Si fa però presente che sul mercato esistono ottime soluzioni illuminotecniche e sistemi plug and play che permetterebbero reti integrate, flessibili e personalizzabili ma “il cliente chiede di risparmiare, difficilmente vede l’elemento flessibilità come un investimento”. Qualcuno sostiene che, mentre nel retail o negli alberghi la luce è un elemento fondamentale per ‘vendere’, nelle chiese o nel teatro il progetto della luce ha un importanza strategica dal punto di vista funzionale ed emozionale, purtroppo non è così importante nei luoghi di lavoro: i dipendenti lavorano comunque, buona o cattiva che sia la luce; quando il budget è limitato si dà priorità alla qualità della luce negli ambienti di rappresentanza: hall o sale riunione. In netta contrapposizione è chi –supportato da ricerche- sostiene quanto la qualità della luce influisca su motivazione, buonumore, assenteismo per malattia, produttività. Forse la luce è importante solo per l’utilizzatore e non per l’investitore, o forse gli architetti non sono preparati, non sanno presentare questi aspetti e convincere il proprio cliente. Secondo alcuni ‘L’architetto deve vendere il suo progetto non deve predicare!’, secondo altri è suo dovere farlo, magari sotto forma di ‘progetti carbonari’, come li chiama Lorenzo Palmeri, che facendo leva su un elemento su cui c’è sensibilità del cliente (per esempio risparmio energetico o costi di gestione), introducono la qualità come ‘valore occulto’. E ancora: solo se l’architetto ha competenze specifiche illuminotecniche può proporre soluzioni; ma per altri l’architetto non deve essere un tuttologo e deve avvalersi di consulenti per problematiche specifiche, fungere da regista in un team di progettazione integrato fatto di specialisti. La luce però non è solo effetto di un impianto, non è solo un aggregato dell’edificio ma appartiene al mondo delle soluzioni di arredo, gli architetti devono usarla in modo più libero invece di muoversi su schemi prestabiliti.
Il committente che guarda al budget non va visto come l’uomo nero; però anche senza essere ‘romantici’ chiediamoci: quando il costo del personale incide per il 90% sui costi di progetto e gestione del workplace, che senso ha risparmiare il 2% sulla sola illuminazione? Nella realtà l’illuminazione è spesso affrontata alla fine del progetto, quando è anche quasi finito il budget e, nonostante il progetto sia stato definito con cura, si semplifica, si banalizza, si snatura il progetto iniziale per ridurre i costi.
Non mancano esempi di buoni progetti che sono frutto di un team, di aziende eccellenti che producono oggetti e servizi di qualità e che, coerentemente, investono nella loro sede per comunicare attraverso un luogo che li rappresenti e per offrire qualità ai propri dipendenti, anche qualità illuminotecnica. Sono aziende che hanno una visione condivisa con i dipendenti, che hanno una Cultura della Qualità.
È sostanzialmente un problema di Cultura: non puoi convincere un cliente del valore della Qualità come non puoi ‘convincere un pesce a volare’. Il progettista può solo cercare di equilibrare le priorità, ma, come dice Andrè Straja ‘il pesce resta pesce e l’uccello resta uccello.’
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