
Il prossimo 2 marzo si svolgerà a Milano la premiazione dei Best Workplace 2018 selezionati da Great Place To Work Italia, un evento che è diventato nel corso degli anni appuntamento irrinunciabile nell’ambito del management e che anche quest’anno sarà trasmesso in streaming sulla pagina Facebook di GPTW .
In attesa di conoscere la classifica delle aziende che i dipendenti giudicano i migliori posti dove lavorare, incontriamo Andrea Montuschi, presidente di Great Place To Work, coach, consulente HR e creativo per attitudine, che in questa intervista sintetizza quali sono gli elementi indispensabili per diventare una Best Company, offrendoci lo stato dell’arte sulla cultura aziendale in Italia.
Per stilare la classifica 2018 sono stati intervistati in Italia ben 109.000 mila dipendenti. Da questa ampia indagine quale ritratto emerge dell’imprenditoria italiana?
In Italia il profilo medio di impresa è molto diverso rispetto all’estero. Genericamente si parla di Piccole e Medio Imprese, ma è una realtà fatta soprattutto di Piccole e Molto Piccole Imprese che ovviamente hanno dinamiche interne completamente diverse rispetto alle Grandi Imprese.
Le piccole imprese padronali hanno un livello più basso di cultura di analisi e manageriale; inoltre siamo partiti con grande ritardo sul tema del clima aziendale.
Ho conosciuto aziende con 80 anni di storia che non non hanno mai sentito l’esigenza di valutare livello di soddisfazione dei propri dipendenti. Spesso, anche quando vengono messe in atto azioni che hanno come obiettivo il benessere dei dipendenti, l’approccio è comunque calato dall’alto e non è previsto alcun feedback da parte dei collaboratori.
Però la situazione sta mutando rapidamente: il cambiamento è portato avanti soprattutto dai giovani.
Dunque i millennials sono promotori del cambiamento della cultura manageriale in Italia?
Innanzitutto dobbiamo capire che cosa si intende per millennials, definizione che non mi piace e che ha varie interpretazioni; meglio parlare della generazione nata dopo il 1990 (i Millennials comprendono invece anche i nati dopo il 1980 – oggi sono quindi quasi quarantenni!).
Questi giovani, oggi al primo impiego, sono cresciuti utilizzando social media e tecnologie che li hanno abituati al feedback immediato; ovviamente sentono questa esigenza anche in ambito lavorativo e chiedono un riscontro continuo da parte del management.
Stanno portando nelle aziende la cultura del feedback costante e quindi la tradizionale indagine annuale, che resta comunque indispensabile come “check up completo”, non è più sufficiente, perché non può offrire il riscontro continuo che i giovani si aspettano: oltre alle survey (indagini) annuali, servono poll (sondaggi) più frequenti.
Per rispondere a questa esigenza si stanno sviluppando strumenti e servizi applicativi diversi, anche di tipo “always on”, che integrati a un sistema di intelligenza artificiale permettono di generare domande diverse per persone diverse, che cambiano anche in base alle risposte precedenti di ciascuno.
Le aziende Italiane sono però ancora lontane da questa cultura… dobbiamo ancora affrontare il primo step dell’indagine annuale!
Cosa può spingere le aziende a dare maggiore peso al clima aziendale?
Certamente le aziende che si impegnano sulle tematiche del clima aziendale hanno una marcia in più e risultati finanziari nettamente superiori. Questa correlazione non è sostenuta solo da GPTW: esistono ricerche di prestigiose università internazionali, che dimostrano il legame fra il clima organizzativo e gli indicatori finanziari. Un ottimo esempio in questo senso è la ricerca condotta da Alex Edmans, Professore di Finanza alla London Business School, che ha non solo dimostrato la correlazione fra l’investimento sul clima aziendale e il ritorno economico, ma ha anche verificato come la relazione vada in una direzione precisa: è il clima organizzativo a generare profitti, non il risultato finanziario a creare un buon clima.
In estrema sintesi, quali sono gli elementi per aumentare la motivazione dei dipendenti?
Si deve partire dal fatto che “il bastone e la carota” non funzionano. Non vanno bene perché si crea dipendenza per la carota e si genera paura del bastone, senza costruire nessun fondamento: se tolgo bastone e carota non resta niente!
Un aspetto importante sulla motivazione è la carriera, ovvero dare un senso di evoluzione e di percorso realistico e rispettarlo. Questo percorso include la formazione, la crescita della persona e della sua conoscenza.
In particolare i giovani vanno motivati e formati a usare gli strumenti corretti; i giovani hanno fretta, poca fedeltà e scarso attaccamento al brand, cambiano frequentemente azienda.
L’obiettivo non è però creare attaccamento al brand, ma ai valori del brand. Questo vale sia per i clienti che per i “clienti interni”, ovvero i dipendenti.
Nel suo saggio “Drive”, Daniel H. Pink spiega in modo chiaro che la motivazione, nel lavoro e anche nella vita, non è spinta da leve economiche (un contentino che genera assuefazione, ma non basta). Pink sintetizza i tre principali driver della motivazione:
il senso dello scopo (purpose), il desiderio di imparare e diventare bravi (mastering) e la necessità di gestire in autonomia la propria vita (autonomy).
Dunque più autonomia, meno controllo, briglie sciolte, offrire la possibilità di essere creativi e formare per diventare bravi a usare il pensiero creativo; l’azienda che riesce a dare questo ai suoi dipendenti genera felicità – e le nostre indagini lo dimostrano.
Se premio di produzione e benefit aziendale non raggiungono lo scopo, che cosa gradiscono i dipendenti?
La comunicazione, che da sempre è driver di motivazione in ogni cultura e demografia, diventa sempre più importante in tempi di smart working: il coinvolgimento e il sentirsi informato sono motivanti. Il manager deve quindi trovare strumenti nuovi per comunicare perché, quando i dipendenti lavorano spesso fuori sede, gli incontri di persona diventano sporadici e difficili da pianificare. Il nuovo manager deve saper usare le riunioni in modo mirato, utilizzare strumenti e tecnologie che, ispirate dai canali social, tengono uniti i gruppi e permettono la comunicazione in tempo reale. Per esempio alcune aziende hanno abolito le e-mail perché non sono più uno strumento adeguato.
Anche il concetto di benefit è diventato flessibile e personalizzato: oggi si parla di flexible benefit (i collaboratori possono crearsi il proprio “paniere” di benefit), ovvero di convenzioni esterne in outsourcing.
Cambiano anche le politiche di welfare aziendale: fare l’asilo nido in azienda accontenta solo la fascia con figli piccoli, i giovani vorrebbero invece una sala per la musica, che però non sarebbe gradita alla popolazione più anziana. Quindi anziché spendere molti soldi per creare infrastrutture che non accontentano tutti, è meglio adottare voucher che ognuno può gestire a piacere.
Ai fini della motivazione e felicità del dipendente, quanto conta la qualità dell’ambiente, sopratutto in era di smart working?
Un po’ di tempo fa ho scritto e pubblicato sul mio profilo LinkedIn un dialogo, quasi un mini-copione teatrale, che affrontava in modo ironico questo tema, scherzando sul paradosso per cui le aziende costruiscono uffici sempre più belli e accoglienti, ma poi, con lo smart working, spingono i dipendenti a non andarci.
Ironia a parte, la qualità dell’ambiente sta assumendo sempre più importanza, come si rileva anche in fase di colloquio per le assunzioni.
Anche la location conta molto e, nelle città più grandi, è particolarmente apprezzata quando si trova in zona centrale. Come dimostra il ritorno in centro città di molte aziende che negli anni passati avevano preferito scegliere aree esterne alla cerchia urbana per i propri headquarters.
Intervista a cura di Renata Sias
Nelle foto tre delle Best Companies selezionate nel 2017 da Great Place To Work:
ConTe;
The Adecco Group;
Geico
Nel video in diretta di Facebook: parte dell’intervento di Andrea Montuschi all’incontro Humans & Resourches 4.0 organizzato da Camera di Commercio Italo-Germanica a Milano.