Con questo articolo dedicato al ruolo del Chief Happiness Officer si conclude la rubrica Felicità nel Workplace curata da Daniela Di Ciaccio per WOW!
Non a caso è postato il 20 marzo, Giornata Internazionale della Felicità, mentre da qualche ora è in corso la Maratona della Felicità (virtuale) organizzata da 2BHappy Agency con il suo network di Geni Positivi.
In questo quarto articolo, l’autrice risponde a domande che spesso le aziende si pongono.
Come possiamo motivare i nostri collaboratori, spingere i team ad assumersi maggiori responsabilità e migliorare la collaborazione?
Come possiamo liberarci dei #badmanager, cambiare la cultura organizzativa, sviluppare la fiducia e rendere il nostro lavoro più agile quando l’organizzazione non lo è?
Ci occupiamo di persone e organizzazioni da più di 15 anni e quelle che hai appena letto sono le domande che abbiamo sentito risuonare di più e trasversalmente in tutti i tipi di settore e nelle aziende di ogni dimensione.
Sono domande tipiche di un dipartimento Risorse Umane, che ha lo sfidante compito di assicurare quel livello di coinvolgimento e motivazione delle persone necessari ad innescare il ciclo della performance e della produttività.
Nonostante la quantità di libri, articoli, corsi di formazione, convegni e nuove metodologie che ogni anno fioriscono su questi argomenti – servant leadership, agile, scenario planning, e conscious capitalism.. solo per citare i modelli più recenti e con qualche fondamento scientifico – la realtà in cui ci troviamo è ancora caratterizzata da ambienti di lavoro e organizzazioni in cui le persone sono demotivate, si sentono sovraccaricate di compiti e sottoutilizzate nei loro talenti.
Quando chiediamo alle persone di raccontarci quali sono i momenti più belli della loro vita, la maggior parte riporta episodi e situazioni che appartengono alla sfera personale. Eppure passiamo al lavoro in media 1.725 ore l’anno, circa il 30% della nostra vita attiva che bruciamo in malumori, piccoli screzi tra colleghi o peggio relazioni con i capi pesanti e dannose quanto una dieta a base di patatine fritte.
E insieme ad una vita lavorativa coinvolgente e significativa se ne vanno in fumo anche 500 miliardi di euro per mancata produttività…
Ecco perché la felicità al lavoro è cruciale: perché un lavoratore felice si ammala di meno, vive più a lungo, è più creativo, più coinvolto, lavora meglio e produce di più.
Ecco perché oggi le organizzazioni positive sono un fatto: esiste una letteratura solida supportata da numeri, evidenze e studi sul campo che dimostra come questo tipo di organizzazioni, in cui la cultura della felicità è declinata accuratamente in processi e comportamenti coerenti, ottengano risultati e numeri straordinari sia su scala individuale che sistemica (per un approfondimento il più solido business case per la felicità leggere Rapporto sulla politica globale di felicità e benessere).
Il percorso di costruzione di un’organizzazione positiva è però un vero e proprio processo di cambiamento culturale che richiede il passaggio da una cultura del lavoro basata sullo stress e la pressione, uno stile di leadership del tipo comanda e controlla e strutture organizzative gerarchiche a modelli mentali e visioni basate sul Noi, sulla produzione di chimica positiva e benessere, su fiducia e trasparenza totale.. Cambiamento che richiede presidio, competenza e pazienza.
Chi detta il ritmo di questo percorso di evoluzione?
Attore e motore di questo cambiamento è il chief happiness officer, un ruolo che non va ad aggiungersi ma a completare e arricchire le competenze di figure professionali già presenti in azienda come HR manager, CEO, imprenditori, welfare e community manager, consulenti ed executives consapevoli della necessità di acquisire nuovi linguaggi e competenze capaci di anticipare i futuri e far evolvere le organizzazioni verso modelli eco-sistemici.
Alla parola chief happiness officer Google ci restituisce ad oggi 25.000.000 di risultati.
Facendo lo stesso esercizio su LinkedIn passiamo dai circa 600 risultati del 2016 ai 1.100 di dicembre 2019, che salgono a 1.200 se si elimina il chief lasciando solo happiness officer.
Il chief happiness officer è una posizione emergente, in Italia ne abbiamo già certificati 54, e in molti si chiedono: siamo di fronte ad una moda o ad un segnale di anticipazione?
Pur essendo consapevoli che esiste il rischio che possa trasformarsi in una sterile “moda” del momento o per qualcuno in una subdola forma di manipolazione per ottenere più produttività, dal nostro punto di vista costituisce senza riserve un segnale che sostanzia la direzione verso cui la coscienza umana, e quindi le organizzazioni che ne sono l’espressione, si sta evolvendo. E’ il prodotto cioè di un sistema che tenta di generare al suo interno anticorpi capaci di riportare saggezza in un organismo che sa di non essere più adeguato ad anticipare il futuro.
Qual è, dunque, l’identik di un chief happiness officer (CHO), cosa lo contraddistingue da un tradizionale HR Manager?
Sono due le caratteristiche specifiche e innovative di questo ruolo:
- la visione dell’organizzazione;
- una metodologia efficace ed adattiva perché basata su principi di funzionamento scientifici.
Il Chief Happiness Officer ha una visione sistemica ed integrata delle Organizzazioni
Sa che le organizzazioni non sono macchine composte di parti separate e che le persone non sono ingranaggi da manipolare, controllare, contare, spostare senza che ci siano effetti su altre dimensioni. Vede le organizzazioni come organismi viventi, complessi e adattivi che si modificano costantemente attraverso le interazioni interne ed esterne, e vede le persone nella loro “pienezza”, con bisogni, talenti, capacità, valori, anche esse in costante mutamento.
Questo tipo di visione richiede la capacità di osservare l’organizzazione in maniera sia allargata – considerando insieme alla dimensione interna anche la dimensione esterna, della società e dell’ambiente in cui l’organizzazione agisce – sia integrata.
Il chief happiness officer è un esperto di organizzazioni positive e ha un approccio capace di far dialogare i processi organizzativi con i comportamenti e la cultura, al fine di generare coerenza e fare della felicità una solida strategia organizzativa.
Il tema dell’engagement, per parlare di uno degli argomenti più dibattuti, non può essere considerato solo attraverso l’azione su una parte (introducendo magari una policy specifica per migliorare il benessere delle persone, come il corso di yoga), ma lavorando sull’intero sistema (stile di leadership non orientato solo ai risultati, processi di lavoro agili e smart, cultura del benessere..) per creare le condizioni e il contesto affinché le persone si sentano coinvolte, supportate e la politica scelta sia efficace.
Il Chief Happiness Officer ha una metodologia adattiva basata su “principi di funzionamento scientifici”, non una ricetta di regole standard da applicare in ogni situazione e indipendentemente dal contesto.
La metodologia che utilizza non è una check list di pratiche da copiare e incollare in qualsiasi contesto e circostanza (“one-size doesn’t fit all”). E’ piuttosto costituita da un’architettura di principi scientifici offerti dalla Scienza della Felicità e che abbiamo visto in precedenti articoli (come i vantaggi della chimica positiva e del capitale sociale), che consentono al CHO di scegliere cosa fare, da che punto partire e quali pratiche adottare per disegnare la strategia ed implementare il percorso di sviluppo organizzativo più efficace e congruente con il contesto in cui opera.
Percorso che sarà prettamente originale e specifico per ogni organizzazione perché terrà conto del momento storico, del mercato in cui opera, di ciò che già è stato fatto e magari occorre solo sistemare e raccontare meglio e di ciò che è davvero necessario per il tipo di settore in cui si agisce.
Il CHO di un’azienda del settore edile sa, ad esempio, che non ha senso inserire un originale pacchetto welfare se ai collaboratori non viene erogata un’adeguata formazione e dispositivi sulla sicurezza capaci di evitare i piccoli e grandi infortuni che continuano a verificarsi..
Il CHO non ha la bacchetta magica per fare ordine una volta per tutte nella complessità vitale dell’organizzazione, ma ha sempre una domanda che può supportare la scelta strategica in ogni tipo di situazione: questa azione, decisione, pratica, iniziativa aumenterà la felicità dei nostri colleghi, clienti, stakeholder, comunità.. o la diminuirà?
Il chief happiness officer è per noi è un moltiplicatore d’impatto:
“Noi vogliamo un Chief Happiness Officer in ogni organizzazione del nostro Paese, affinché in ogni luogo di lavoro la cultura della felicità e della positività diventi una priorità strategica, per il benessere e la sostenibilità delle persone e dell’azienda. Più Chief Happiness Officer competenti, coinvolti e coerenti avremo nelle aziende più il nostro proposito sarà onorato.”
Testo di Daniela Di Ciaccio, co-fondatrice di 2BHappy Agency.