Si è svolta presso The Hub Milano la riunione fluida e nomadica di redazione sul tema “Nuove identità dell’ufficio condiviso”.
WOW! webmagazine prevede una redazione nomadica, (ogni mese in un luogo diverso) fluida e jelly (composta da un piccolo gruppo selezionato e variabile di professionisti).
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L’ufficio condiviso è un tema di grande attualità; siti e agenzie immobiliari confermano che aumenta in modo esponenziale la disponibilità di singole stanze in affitto all’interno di uffici di ampie metrature, non solo nelle grandi città; oltre a questo fenomeno “spontaneo” di ufficio condiviso dovuto alla crisi economica ci interessa individuare quali altri valori racchiuda il concetto di condivisione del workplace, quali siano le esigenze del mercato, quali identità possa assumere quale sia l’ambiente ideale.
Ne abbiamo discusso il 13 febbraio, durante la WOW! Jelly Session #3, presso The Hub Milano insieme a Vita Sgardello (The Hub Milano), Raffaele Giaquinto (Piano C Milano), Aurelio Balestra (Toolbox Torino), Giulio Ceppi (architetto TotalTool), Mario Mazzer, architetto (via Skype da Conegliano) e Caterina Tiazzoldi, architetto (via Skype da New York).
Con un ideale proseguimento presso Piano C in occasione dell’incontro “Dove nascono le imprese?” che tra le esperienze, idee e proposte per generare imprenditorialità ha presentato anche diversi casi di coworking: oltre a Piano C, raccontato da Riccarda Zezza, Marcello Merlo ha parlato di Talent Garden Milano e Massimo Carraro di Cowo. Un’occasione per condividere le difficoltà dovute alla burocrazia e al totale vuoto legislativo di fronte a tipologie imprenditoriali realmente innovative e per denunciare gli impedimenti creati dall’ignoranza di funzionari senza titolo e dalla difficoltà di accesso al credito o ai bandi di finanziamento europei.
La Jelly Session ha invece cercato di identificare gli elementi che contraddistinguono le diverse tipologie di ufficio condiviso.
The Hub, cultural factory nata a Londra nel 2005 che ha oggi 37 sedi nel mondo, ha fatto dell’impegno civile l’elemento identificativo della condivisione/collaborazione; all’interno di spazi coworking intesi come rete di persone che condividono le proprie passioni e lavorano insieme per incrementare l’impatto sociale, ambientale e culturale si crea una vera e propria community. “Questo crea un’identità molto forte – dice Vita Sgardello– ma non vogliamo ghettizzarci o accogliere solo start-up; il network è un mix di portatori di progetti e di varie competenze. Ci sosteniamo economicamente con l’affitto degli spazi coworking e aiutiamo le persone a mettersi in contatto, stimoliamo gli imprenditori e organizziamo eventi sui temi che sono alla base della nostra filosofia”. Anche il progetto dello spazio – open space su due piani più soppalco e cortile, con sale meeting e kitchenette- è coerente con questa visione e costruito con spirito sostenibilità e condivisione utilizzando principalmente materiale di recupero.
Diverso è il caso di ToolBox, 5000 mq in un’area industriale dismessa di Torino; gli investitori hanno affidato il progetto all’arch Caterina Tiazzoldi che insieme allo staff ha identificato le esigenze e le ha tradotte in uno spazio affascinante e informale. “Il nostro spazio non è connotato da una filosofia, ma dall’esigenza di condivisione e di attivare sinergie e spirito imprenditoriale –spiega Aurelio Balestra – risparmio economico e scambio di relazioni sociali sono i meccanismi alla base del coworking che non ospita solo professionisti e start-up in open space ma anche aziende (anche multinazionali importanti) nella zona strutturata con stanze chiuse; non è uno spazio di rappresentanza ma abbiamo voluto rispondere anche all’esigenza di chi chiedeva maggiore privacy”. Caterina Tiazzoldi via skype da New York spiega l’innovativo progetto che, basandosi su una mappa dei gredienti per identificare la necessità di privacy, ha creato una mediazione tra questi elementi. Anche ToolBox propone incontri e iniziative che creano un tessuto connettivo e sono parte della community. Dove la richiesta di mercato non è alta la community è anche una necessità per attrarre persone “Di spazi disponibili in giro ce ne sono tanti –continua Balestra- allora devi mettere un’anima, devi creare un luogo dove succedono cose”.
Dopo una riflessione corale si stabilisce che, secondo questa accezione che vede la community alla base del coworking, HOS a Brescia risponde alla tipologia del Business Center anche se ha dedicato particolare attenzione alle aree di aggregazione. “La proprietà ha individuato tipologie di professionisti che lavorano su dati sensibili e che hanno necessità di riservatezza e di spazi di rappresentanza per incontrare clienti. – spiega via skype il progettista Mario Mazzer-. Non ci sono open space, solo ambienti chiusi molto flessibili delimitati da pareti che si possono ampliare secondo le necessità, hanno richiesto 42 decibel di isolamento acustico proprio perché la privacy è fondamentale; altrettanto fondamentale è la qualità ambientale e il livello dei servizi e degli spazi di supporto offerti: sale conferenza, attrezzature high-tech e aree lounge deputate agli incontri dove spontaneamente si socializza, si genera business e creatività”.
Non è d’accordo su questo punto Vita Sgardello “Condividere e collaborare non è poi così spontaneo; lo spazio aperto e gli eventi organizzati sono fondamentali per facilitare e stimolare la condivisione di idee.”
Urban Station rappresenta una tipologia intermedia “Un Temporary Office in un quartiere trendy di Buenos Aires – spiega il progettista Giulio Ceppi– salette chiuse da affittare a ore al piano superiore e un’open space informale di sapore vintage al piano terra, dotato di angolo ristoro con vending machine. Non c’è una community o una filosofia portante, gli utenti sono professionisti e creativi di passaggio, c’è una fruizione fluida, nessuno ha una base fissa o attività permanenti. Si offre un puro servizio di spazio attrezzato; l’unico orientamento al network è quello in sinergia con TED Conference (Ideas Worth Spreading) che organizza periodicamente i meeting online all’ora del breakfast presso Urban Station”.
L’ultimo case study affrontato, aperto da 2 mesi, è l’innovativo progetto pilota Piano C; come suggerisce il nome, è un modello organizzativo che integra il supporto alla crescita professionale (A) e all’area personale (B) in uno spazio/servizio che sperimenta attività e soluzioni per una concreta Worklife Balance (C). “Il format è rivolto a donne/mamme professioniste che si riconoscono nei valori della community; abbiamo anche un papà che lavora in un’altra città ma quando è a Milano ha bisogno di una base per lavorare e per stare vicino al suo bambino. Le caratteristiche di Piano C sono il Cobaby (100 mq di spazio per bambini gestito da personale formato) e la flessibilità del tempo: non esistono vincoli di affitto, ma pacchetti con orari flessibili in base alle esigenze. In una situazione così fluida il programma di incontri e convenzioni è importantissimo per stimolare la community. Ora stiamo mappando le competenze per attivare possibili scambi. Il nostro obiettivo è quello di riuscire a riprodurre questo modello di felicità produttiva anche in altre città del centro e sud Italia”.
Si discute di altri possibili modelli di inediti uffici condivisi e l’idea più provocatoria è quella di Giulio Ceppi che cita la “community” degli Homeless degli artisti Glaser/Kunz che nella performance presentata alla scorsa biennale d’arte di Venezia hanno creato manichini iperrealisti, ex manager rimasti senza lavoro e senza casa che però parlano ancora al cellulare e discutono di internet e degli andamenti della Borsa: un inquietante ufficio condiviso tra i sacchi della spazzatura…