
Non è solo un problema individuale: il miglior rimedio contro la sindrome da burnout è un management in grado di creare benessere. Scoraggiare la dipendenza da lavoro, favorire il diritto alla disconnessione, creare una comunicazione trasparente e orizzontale, investire su spazi ed esperienze: prevenire, riconoscere ed intervenire sui casi di burnout dei propri dipendenti è uno dei principali compiti richiesti oggi da una buona leadership.
Più arbejdsglæde (in danese, “felicità sul lavoro”) e meno “Karoshi” (in giapponese, morte da superlavoro). Questo deve essere il motto guida del management oggi. Due parole provenienti da culture diverse, come culturale è l’impatto che devono avere oggi coloro che sono chiamati ad essere leader in azienda.
La sindrome da burnout, come abbiamo già sostenuto nel precedente articolo, è l’incorporazione di un disagio organizzativo più ampio: uno o più dipendenti che sperimentano l’essere sommersi dal lavoro, piuttosto che il cavalcarlo su una tavola o nuotarci confortevolmente dentro, sono un segnale importante per un manager per interrogarsi sul proprio stile di leadership.
L’obiettivo, come proposto dal canadese Great-West Life Centre for Mental Health in the Workplace, è quello di creare un “Psycologically Safe Workplace”, dove ogni sforzo è teso a salvaguardare e implementare la salute mentale (e fisica) di ogni dipendente. Ogni manager, oggi, è valutato inevitabilmente anche dal suo livello di consapevolezza dell’impatto dei suoi comportamenti sul suo team, dalla sua capacità di ascoltare e far fronte agli interessi e alle richieste dei dipendenti e dalla situazione di benessere che riesce a creare.
Dalla teoria alla pratica, il discorso diventa più complesso. Ad esempio, come fare a gratificare e riconoscere il duro lavoro del proprio team senza rinforzare abitudini di overworking non salutari e, in definitiva improduttive?
L’esempio danese, primo paese al mondo per la felicità sul posto di lavoro, è un ottimo punto di partenza. Ecco tre punti su cui lavorare.
Diritto alla disconnessione.
Chiudersi in ufficio fuori orario o lavorare 80 ore alla settimana è visto come un male sia per i dipendenti che per l’azienda.
Un recente studio della Harvard Business Review ha mostrato come un dipendente “highly engaged” su 5 è a rischio burnout. Spesso modi di lavorare non corretti vengono favoriti inconsapevolmente dall’apprezzamento di comportamenti al limite tra l’engagement e il sovraccarico di lavoro, come usare una risorsa su molteplici progetti. In Italia, la legge sul lavoro Agile del 2017 va verso un riconoscimento dell’importanza del work-life balance che certifica il “diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”. Ma il diritto alla disconnessione, nel senso più generale del termine, avviene anche oggi all’interno degli spazi uffici, dove aree relax e ristoranti aziendali certificano nello spazio il riconoscimento le esigenze fisiche e mentali di ogni lavoratore. Come ha dichiarato Stefan Camenzind, direttore esecutivo Evolution Design “Una volta addormentarsi al lavoro era qualcosa da biasimare, ora, invece è considerato irresponsabile chi non lo fa.”
Comunicazione trasparente e orizzonte.
La comunicazione orizzontale e l’assenza di una forte gerarchizzazione sono elementi che caratterizzano gli uffici danesi.
L’incremento di investimenti su risorse intangibili, come esperienze di team-building o di teatro o sport in azienda, favorisce un clima maggiormente di condivisione che aiuta a percepire il proprio luogo di lavoro di fiducia e collaborazione dove ognuno può sviluppare il proprio talento. Questo clima di fiducia permette anche di prevenire casi che potrebbero sfuggire al management: se un lavoratore realizza che un suo collega sta soffrendo uno stato di ansia e di stress molto forti, dovrebbe sentire la libertà di avvicinare il capo o il responsabile delle risorse umane per avvertirli in modo da affrontare per tempo la situazione. Inoltre l’obiettivo è quello di creare un sistema in grado di mettere al centro ogni lavoratore: la percezione di non dare un contributo adeguato o rilevante alla propria organizzazione, la mancanza di riconoscimento dei propri sforzi, conflitti latenti e non risolti, sono tra le maggiori cause di burnout.
Le possibilità di apprendimento continuo e gli investimenti sulla “politica attiva del mercato del lavoro” sono due aspetti su cui la Danimarca spende di più di qualunque paese OCSE.
La crescita costante professionale crea un maggiore consapevolezza della propria auto-efficacia e preparazione in un mercato in costante evoluzione, diminuendo quell’ansia che caratterizza la possibile decisione di cambiare posto di lavoro nel caso di eccessiva ansia o stress.
Insomma il benessere in azienda non è una questione privata. Come abbiamo già sostenuto in molti articoli, in un contesto produttivo le emozioni hanno un impatto sociale e sulla produttività dell’azienda. Infondo, l’insorgere di uno o più casi di sindrome da burnout in azienda, oggi, deve anche essere visto come un sintomo di una cultura manageriale da cambiare.
Testo di Gabriele Masi.